Eventi ed epifenomeni nel crepuscolo della civilizzazione occidentale
Maggio 2025 - Alberto Iannelli
L’ideogramma giapponese 間 (“Ma”, nella grafia latina), di origine cinese, esprime l’idea di uno spazio che intervalla la pienezza. Possiamo definire “vuoto” (e “silenzio”, sub specie sonii) l’assenza che conferisce distanza a ciò che in essa via via si fa presente e vi prende posizione, héxis ed haecceitas.
Democrito pensò l’Hypokeimenon del reale, l’elemento originario e fondamentale, immutabile ed eterno di tutto ciò che è ed appare, nonché il suo stesso principio causativo (Arché), come l’unità minima della materia non ulteriormente divisibile (ἄ-τομος), infinita e incorruttibile. Tuttavia, affinché tali costituenti elementari del concreto potessero “muoversi”, sicché divenire e mutare (Epamphoterizein), introdusse un secondo principio, parimenti pristino, costitutivo, illimitato e ingenerato: il vuoto, tó κενóν. Se, eleaticamente, “tutto è ricolmo d’essere, ché ente ad ente accostasi”, non può, infatti, darsi né l’individuazione, né il movimento, non dunque la meravigliosità (θαῦμα) del molteplice che immediatamente appare e appare diveniente: l’evidenza suprema. Lo Sfero compatto è l’unità, sinechiale, del sempre Identico e del perpetuamente Quieto. La realtà, pertanto, ha, per gli atomisti, fondamento dualistico, secondo necessità: l’essere e il pieno, il concreto e il continuo, implicano, in bicondizione, il non essere e il vuoto, il formale e il diastematico.
Secondo la dottrina cristiana della Kénosis, la piena perfezione divina, per potersi fare carne e carne umile, dovette “svuotarsi” della propria compiutezza assoluta. Paolo, nella lettera ai Filippesi, scrisse:
<< Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini >>
[τοῦτο φρονεῖτε ἐν ὑμῖν ὃ καὶ ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ, ὃς ἐν μορφῇ θεοῦ ὑπάρχων οὐχ ἁρπαγμὸν ἡγήσατο τὸ εἶναι ἴσα θεῷ, ἀλλὰ ἑαυτὸν ἐκένωσεν μορφὴν δούλου λαβών, ἐν ὁμοιώματι ἀνθρώπων γενόμενος·, vv. 2, 5-7]
L’essere compiuto e universale, l’ἄ-πειρον, per poter accogliere entro sé l’ente ecceitale, l’individualità e la caducità, è necessario si “de-vasti”, ovvero comporti spazio e intervallo entro la compattezza della propria perfezione; deve, sicché, ἐκένωσεν: “svuotarsi”.
Un medesimo concetto di coimplicazione duale tra un principio ontico che esprime pienezza e presenza (Yang) e l’opposizione meontica che lo controbilancia (Yin), si ritrova nel Taosimo. Egualmente, la tradizione sapienziale ebraica utilizza l’espressione Tzimtzum per esprimere la ritrazione o l’autolimitazione di Dio nel proprio atto cosmogonico: acciocché la pienezza del mondo possa essere estroflessa, occorre che venga preliminarmente ad essa concesso spazio, ma, se Dio è il Tutto, Dio medesimo deve comportare steresi entro la propria satura panicità.
Ebbene, lo spazio vuoto, per quanto sia sensorialmente impercettibile, in quanto non possiamo né vederlo né toccarlo, né misurarlo né colpirlo o abbracciarlo, come Odisseo Anticlea nell’Ade, è pur un luogo della nostra mente, una presenza che noi concepiamo proprio per potere pensare al reale inscrivendolo nell’orizzonte della distintività individuale e del movimento. Non solo, la breve collazione di tradizione culturali tra loro differenti e non immediatamente genealogicamente correlate, dimostra come tanto la Kénosis, quanto la relazione di interdipendenza tra vacuità e pienezza, siano categorie astratte trascendentali o aprioristiche, noumeni della Mente universale, condizioni preliminari che rendono possibile l’esperienza empirica conseguente di una Realtà che (di)viene a noi incontro in discretudine e intervallata singolarità.
Nondimeno, in tutte queste tradizioni, il vuoto è pensato sempre quale bi-condizione del concreto, correlato alla di esso catafasi essoterica, non già in quanto “atro antro e angusta prigione che delimita e nasconde, detrudendoli e adombrandoli, tesori arcani e forze così misteriose come titaniche, che attendono solo di essere liberate (Un-bound) per sprigionarsi immani e illimitate verso l’infinito e il perpetuamente vasto”.
Pertanto, se gli ingegneri nipponici, prima, e i cinesi, dipoi, hanno potuto noumenicamente concepire, ancor prima che progettare nel fenomeno, il Maglev, ossia un treno in grado di viaggiare a super velocità (fino a 600 km/h) grazie proprio alla levitazione magnetica o fluttuazione nel vuoto, ciò implica che nel loro asse paradigmatico concettuale l’idea di Vacuità come mera Non-pienezza era già stata integrata, evoluta o sostituita dall’idea di Vuotezza quale “deposito di forze”. Infatti, il campo magnetico, per quanto parimenti invisibile e “anticleico”, è pur qualcosa, e non la mera negazione concettuale della pienezza che intervalla l’ente, è del pari una concretezza, una pienezza energetica, e, come tale, può divenire l’ubi consistam – saldo seppur “immateriale” – di una massa in movimento.
Tale evoluzione del concetto trans-culturale di vuoto, dimostra come, ad un certo punto del nostro percorso storico, in un determinato stigma temporale epperò entro un orizzonte spaziale culturalmente determinato, alcuni uomini inizino a pensare che, nel vuoto così come nell’ignoto, pur qualcosa viva e dimori, seppure non sia immediatamente percepibile: adesso il vuoto non è più vuoto, nel vuoto pur qualcosa riposa nell’attesa d’essere s-legato dal buio e dal non-essere che lo detrude e immobilizza.
Codesto pensiero, a nostro intendere, antecede la scoperta empirica del campo elettromagnetico, cioè a dire la deduzione (concettuale) dell’universale precorre l’induzione (esperienziale) del particolare, così come la scoperta, compiuta dalla fisica post-newtoniana nel Novecento, dimostrante come l’a-tomia democritea non fosse in verità il termine ultimo della materia, il limite del pensabile ontico, bensì che in qualche modo essa stessa preserbasse il tesoro di una energia emancipabile dall’ulteriore sua scomposizione e dissecazione, consegue alla sorgenza della medesima idea in accordo alla quale “il meontico trattiene nel proprio grembo l’energia, la forza, la vita”, come Urano in Gea la prole stipata, in una costrizione che attende esclusivamente la nostra falce titanica per estroflettersi, per “venire alla luce” e all’ontico.
Bene, noi indichiamo con l’espressione “Spirito faustiano” l’agente di questo cambiamento – rivoluzionario, avanguardiale – del concetto “classico” di vuoto, e affermiamo che, se gli ingegneri giapponesi e cinesi hanno potuto anche solo concepire il Maglev, ciò implica, secondo necessità, che il cerchio culturale faustiano – eminentemente (indo)europeo – li abbia già raggiunti e inglobati, afferrati e condizionati nel pensiero e nell’azione.
E così è: la globalizzazione non ha comportato esclusivamente lo spaccio senza frontiere dei beni e dei servizi prodotti e offerti dal capitalismo trans-nazionale, nonché la surrettizia (insorgenza) di bisogni “universali”, bensì anzitutto l’espansione della nostra “grande anima”, sicché del nostro categoriale storico-noumenico, dei costitutivi concetti (indo)europei: dal vuoto come ricetto di forze, al culto della velocità e dell’efficienza tecnica, alla stessa forma, ogivale, della locomotiva del Madlev, perfetto esempio e plastico di una guglia gotica lanciata verso l’orizzonte estremo, equivalente del punto di fuoco nella pittura prospettica rinascimentale di Pozzo, delle fughe di Bach, dei viaggi transoceanici cinquecenteschi, dei poemi graalici.
Il Maglev, questo perfetto epifenomeno faustiano, attesta pertanto, più di molte discussioni geopolitiche, come non abbia alcun senso – sul piano storico-filosofico attuale – parlare di “scontro fra civiltà”, poiché la nostra civiltà si è già imposta sul globo, irreversibilmente, e ciò indipendentemente dal fatto che il mondo continuerà ad essere dominato dalla talassocrazia anglosassone fondata sul commercio (a-simmettrico, cioè a dire sulla pirateria), nonché, ormai, sulla finanza speculativa (altro epifenomeno, con la proprie pura immaterialità e astrattezze, della nostra anima fichtiano-faustiana civilizzatasi in quel di Manchester), o, assai più auspicabilmente per noi, che il Nomos della Terra si ri-centri su Grandi Spazi in armonioso equilibrio eracliteo, tensionale sicché ed agonico: καλλίστης. Allo stesso modo, puramente adiaforo risulta essere il fenotipo dell’ingegnere, nonché l’isoglossa che ne racchiude e avvolge il computare e il concepire il reale per logoi. Lo Zeitgeist già ogni pensiero ecceitale in atto antecede.
Egualmente, in ultimo, ciò dimostra come infondata ogni posizione teorico-politica che correli con necessità la propensione tecnico-prometeica a un qualche génos appunto “geneticamente” (pre)determinato: lo spirito faustiano è un luogo della Mente, che si fa Storia e dunque cerchio culturale. Per questa ragione, nel proprio diffusionismo ecoico, non incontra né può barriere “fisiche”, cioè a dire può coinvolgere la capacità paideutica di ogni uomo, di ogni civiltà. Lo spirito faustiano ha un retaggio europeo, peculiarmente ed esclusivamente europeo, e ciò è inconfutabile, è l’evidenza e l’immediatezza del fenomeno storico. Ma, propriamente non avendo alcuna “genetica europea”, può, come il Maglev di-mostra, estendersi all’altro, al mondo: così è e così viepiù sarà, katà tò Chreon.