Potrebbe destare l’inquietudine di una rivelazione totalmente inattesa quella rilevazione demoscopica che chiedesse a mille nostri studenti universitari di Storia greca e di Letteratura classica da chi e dove, ad esempio, furono uccisi gli Attridi o quale funzione svolgesse l’eforato in Sparta. Con buona pace dei Nóstoi e della meravigliosa trilogia eschilea, a cui verrebbe sottratto l’antefatto della vendetta per la quale il matricida Oreste viene perseguito dalle Erinni, e con altrettanta requie dei delicati equilibri politici tra autocrazia e oligarchia nelle póleis greche, la maggior parte di loro, ne siamo sicuri, risponderebbe: Agamennone fu ucciso da Briseide e Menelao da Ettore, entrambi in Troia; gli efori erano dei mistici corrotti e laidi che ottenevano aurei compensi in cambio dell’interpretazione, politicamente cogente, dei deliri oracolari e oscuri, psicotropicamente indotti, di giovani fanciulle promosse a profetesse esclusivamente per la loro avvenenza suscitatrice di senile lascivia.
Tutto questo è il potere mitopoietico di Hollywood, sul quale già molto e da molto si è detto e scritto.
Ciò su cui invece colpevolmente poco si è riflettuto, si ritiene, è la teleologia di questa sistematica artefazione del nostro passato, di questa costante interpretatio graeca dell’alterità – di ogni alterità in verità, egualmente diacronica e diatopica – che è già volontà di artefare il nostro stesso presente e il suo orizzonte assiologico, ideologico e morale.
Non si tratta, infatti, di decretare l’illiceità di qualsivoglia re-interpretazione artistica o medialmente traspositiva, né di esigere l’assolutezza di un rigore filologico che inibirebbe ogni produzione (ogni poíesis a punto) dell’umana fantasia creatrice; si tratta, piuttosto, di indagare e prospicere il possibile fondamento tanto unitario quanto esoterico di un molteplice darsi apogeo per differenza.
Derubricare ovvero questa volontà monadicamente compatta, per quanto, politropa e scaltra molto, astutamente celante se stessa, in libertà artistica o in adeguazione al medium, libertà epperò dell’ecfrasi cinematografica (di un opera letteraria come della realtà storica stessa), appare candidamente ingenuo e non cogliente giacché politica – e politica in senso pieno, cioè anzitutto tropologica ed eterodirezionale, ossia compiutamente propagandatrice di una precisa Weltanschauung –, essa volontà d’artefazione.
Infatti, l’opera affatto più perniciosa e pericolosa, poiché assai più subdola, di questa potentissima industria dell’indottrinamento di massa, non consiste nella disequazione tra realtà storica e realtà filmica, non ossia nella falsificazione evenemenziale che ponesse, ad esempio, Giulio Cesare sconfitto ad Alesia e trionfatore a Gergovia, bensì in ciò che potrebbe essere definita la “frode della metastoricità o transculturalità dei caratteri”, la truffa ossia dell’inseità universale dell’Umano che fa di noi e della nostra “Deîma” sofoclea eminentemente degli enti di Natura e non di Storia: che Leonida, Marco Aurelio, Gengis Khan, Carlo Magno, Tamerlano, Federico il Grande e Napoleone, esattamente come tutti i loro attendenti e accoliti, sudditi e sovvertitori, abbiamo le medesime percezioni e pulsioni, i medesimi pensieri e desideri, le medesime aspirazioni e assiologie di un newyorkese del 21esimo secolo, rappresenta il più grande inganno del nostro tempo e del Potere in esso vigente.
Ciò che resta nondimeno da chiedersi è quale sia lo scopo di tale sistematica soppressione di ogni pathos della distanza e della differenza, di ogni alterità ossia e storica e culturale elevata entro un orizzonte dell’Umano la cui postulata e proiettata immorsatura diacronotopica o enadità universale trova esatta corrispondenza teoretica e accreditamento apparentemente anapodittico nelle moderne scienze evoluzionistiche, psicologiche e neurali, precisamente postulanti la primazialità della Physis e l’adiaforicità del Geist nella determinazione dell’essenza antropica. Cos’altro, infatti, significa affermare che anzitutto la nostra ipseità categoriale trova dimora nella quantità sinaptica (U = S > 1014) o nella skill della strumentalità o, ancora, nell’opponibile oggettivazione del medium tecnico, piuttosto che nella socialità che organizza il clan ripartendone i compiti; cosa, ulteriormente, asserire che le pulsione dell’inconscio ci definiscono e affratellano globalmente al di là della gettatezza nella Kultur in cui l’individuo le percepisce affiorare; se non a punto sconfessare l’assoluta preminenza della Storia – quale processo di differenziazione permanente e costante – come unico Destino accomunante l’Umano, circoscrizione epperò sola entro la quale può trovare autentica definizione e perimetrazione eidetica l’essenza nostra categoriale via via effondentesi in irriducibile differenza o partizione del distinto?
Altrove sono stati ostensi i fondamenti delle asserzioni che danno replica a essa interrogazione capitale, proposizioni che indicano nell’Indistinto la cifra del nostro Zeitgeist e nell’estrema o tarda civilizzazione dell’epoca enantio-apollinea, seconda in seno all’Era Deuteriore o contro-tempo dell’Essere-in-sé, la collocazione del nostro presente lungo il Sentiero del Giorno (= Seinsgeschichte) o anti-camminamento del notturno Pólemos originario.
Qui si vuole invece elevare quanto, e fin da principio, Hollywood sia stata e sia una delle più grandi armi di diffusione massiva di quella “tirannia dei valori” schmittiana che caratterizza l’Occidente trionfante, di quella terra ovvero ove trova compiutezza di tramonto la civilizzazione manchesteriana della Kultur faustiana, e con essa la stessa Era Deuteriore testé evocata.
Secondo il grande giurista Carl Schmitt, l’assiologia assolutistica e omniavvolgente dell’attuale Nomos der Erde globalista (Pánta) e monadico (Én), in cui l’Umano si dà giacché ente meta-storicamente e trans-culturalmente inquadrato in un orizzonte valoriale anapodittico, ipostatizza la peggiore delle tirannidi possibili, ossia la più coerente-a-sé, in quanto non alcun ricetto ontico-posizionale viene qui lasciato al non-valore ostracizzato dal Tutto-della-Valenza, non-valore determinato che pertanto deve essere – ed è, a ogni piè sospinto – sistematicamente annichilito quale non-valore-assoluto.
Ma adesso questa micidiale macchina mitopoietica e panpropalatrice ha compiuto un ulteriore scatto evolutivo, un nuovo salto nell’innanzi che rappresenta, al medesimo tempo, il disvelamento di quanto già in ante dantesi nel celamento dell’inganno: il paradosso popperiano dell’inclusività assolutamente esclusivista di qualsivoglia esclusività diviene finalmente decretata per norma, diviene ossia condotta dalla latebra della frode all’aprico dall’arroganza dei padroni universali del discorso, evidentemente non più tementi adersioni oppositive al loro vero volto ora viepiù desnudato.
A partire dal 2024 dunque, i film candidati all’Oscar nelle categorie principali saranno obbligati a rispettare il Diktat dell’inclusività o avvolgenza nell’Indistinzione inseitale o nell’Omologazione assoluta: ogni minoranza (etnica, di genere od orientamento sessuale e persino di disabilità psico-motoria) dovrà trovare la propria quota di visibilità, presenza e cittadinanza, dietro e davanti le macchine da ripresa.
Non si commetta ora l’ingenuità di credere che tutto ciò semplicemente consegua all’estremizzazione ottusa del cosiddetto Politically Correct di cui è schiava la società statunitense e l’intellighenzia sua liberal. Né si rimanga petrosamente illaqueati, con ancor maggiore candida perniciosità, nell’affissare il volto suadentemente filantropico e fascinosamente tollerante di questo Potere tanto totalitario quanto intrinsecamente affatturante. La stessa critica che scorgesse un parallelismo tra tale paternalismo etico e il realismo socialista sovietico, non coglierebbe l’essenza di questa decisione.
Ai più, infatti, giacché proprio su tale potenza fraudolentemente affabulatoria si basa la forza di questo Potere malebolgico, nonché, e anzitutto, come ci ricorda Max Scheler, di questo bio-tipo antropico in essa trionfante, potrà sembrare come essa stessa paradossale l’affermazione che indicasse nell’impossibilità di non-includere l’identità del differente nell’identità dell’eguale la più coerente e cogente delle esclusività, ossia l’Esclusività-in-sé-dell’altro-dal-sé.
Come, voler includere l’altro escluso dalla partizione dell’unità che Io stesso sono giacché e finché me stesso, rappresenta proprio il totalitarismo dell’Intolleranza, il sommo dell’Esclusività che annichilisce ogni distinta possibilità di alterità, ebbene ogni precisa posizione di identità?
Sia:
La chiarezza della distintività di ogni posizione particolare, cioè la saldezza della sua propria identità, è direttamente proporzionale alla diafania o kénosis dell’Orizzonte dell’Alterità: più saldamente si tiene fermo lo sfondo della Dia-ferenza, più pienamente ossia si sostiene la nientità dell’Originario, più chiaramente appare lo staglio dell’identità particolare, più – coimplicativamente –, ciascuna realtà determinata conquista pienezza di fondamento od onticità inconcussa e compiuta; all’opposto, più turgescente s’effonde e abbacinante l’Identità-in-sé deuteriore, più torbide e oscure appaiono le parvenze delle identità individuali, più instabili i loro confini epperò maggiormente nientificate le rispettive posizioni o sostanze singole: è questo il tempo del nichilismo inautentico, il tempo della notte del mondo, quando le singole realtà o posizioni di identità particolari sono nulla e del Nulla non ne è più nulla.
Altrimenti a dirsi: io rispetto davvero e pienamente l’altro nella misura in cui non voglio inglobarlo nel mio mondo, bensì preservarlo nella contraddistintività del proprio, giacché il suo non-essere me e il mio non-essere lui ci fa essere entrambi ciò che siamo.
Il nemico è la messa in questione di noi come figure […]. Il nemico non è qualcosa che si debba eliminare per un qualsiasi motivo, o che si debba annientare per il suo disvalore. Il nemico si situa sul mio stesso piano. Per questa ragione mi devo scontrare con lui: per acquisire la mia misura, il mio limite, la mia figura.
[Carl Schmitt, Teoria del partigiano. Edizione italiana: Adelphi, Milano 2005 ]
Si dirà: la società americana ha un’identità molteplice articolantesi in differenti posizioni di identità particolari, per cui imporre la rappresentatività di ogni segmento di questa molteplicità ha come finalità esclusivamente il dare rappresentazione del Tutto-dell’identità e non solo della parte, e ciò risulta necessario e auspicabile proprio per la suddetta potenza mitopoietica di Hollywood. Se in un film, infatti, vedo solo attori bianchi, protestanti ed eterosessuali posso essere indotto a pensare che l’identità complessa della stessa società di cui quel film è specchio non abbia entro sé altre posizioni di identità particolari.
Questa affermazione, apparentemente corretta e condivisibile, ma solo se posta in astratto, se gettata invece nell’Orizzonte noi attualmente (omni-)avvolgente, dimostra di non aver compreso pressoché nulla di esso attuale nostro Nomos der Erde, soprattutto nulla della sua essenza s-confinata e panica.
Ebbene, non alcuna possibilità d’elevazione di qualsivoglia di(s)-stanza identitaria o distintività determinata può trovare mai la propria allocazione posizionale al di là dell’Orizzonte tutto-afferrante dell’Identità-in-sé, Orizzonte aoristo ed equoreo entro cui ogni alterità si dà giacché adiaforica, sive nulla.
Quando il Mondo-Tutto-diviene-Uno e l’Umanità è decretata universale quanto la sua assiologia, non può più darsi con necessità alcuno spazio di vigenza per il non-valore [egualmente per l’identità diversa], non alcuna possibilità di trovare cittadinanza ontica è offerta agli esclusi dal perimetro panico di essa posititività valoriale [egualmente eidetica]: oltre il Tutto, nulla si dà. A tutti i non allineanti rimane pertanto per ricetto esclusivamente il Nulla. Questa è la Tirannia dei valori. E non possiamo non concordare con Carl Schmitt nell’indicare tale aggressivo annichilimento dell’altro tutto quale spirito o essenza del nostro tempo.
In concreto: non già solamente quel film che ritraesse con retta mimesi la società multietnica e liberal americana coeva, ma ogni film che ritraesse ogni comunità dovrà conformarsi, ossia, egualmente, omologarsi, al disegno sociale che piace al Potere (gradevole e grazioso naturalmente giacché massimamente lucrativo: le minoranze sono anzitutto quote particolari del tutto del mercato; il mercato deve essere un Tutto e non alcuna sclerosi identitaria, ossia differenziativa – che non sia ad arte aderta - deve giammai ostare al fluido scorrimento delle merci e godimento dei consumi, non lo Stato, non la lingua, non l’altare, non i lascito dei padri etc...; l’indebolimento della differenza, che è a punto – per coimplicazione necessaria – indebolimento dell’identità, conduce nello staglio distintivo che permane l’identità del brand e della corporation che lo smercia etc...).
Ed è proprio in essa vocazione universalistica, cioè a dire monadica – assolutamente unitaria egualmente epperò, proprio per questo, sommamente autocratica, che dimora l’attuale acme storico dell’Esclusività, ebbene il più feroce e ferreo, cioè teoreticamente più coerente, dei totalitarismi: non solo all’alterità diatopica deve essere inibita ogni posizionalità propria, se distintivamente divergente, ma neppure ad alcuna estollenza eidetica passata o alterità diacronica può essere concesso ricetto ontico o emancipazione al sé diverso dal Tutto (se poi vi fossero alcuni che, mossi dal radicalismo della rappresentatività, arrivassero addirittura a sostenere la liceità di annullamento di qualsivoglia pathos della differenza anche in quei film che dovessero ritrarre società a noi distanti nel tempo e nello spazio, poiché la loro fruizione pur avverrebbe nel presente, non potremmo che tornare ad augurare loro “buon loto”).
Ecco che il Potere che si mostra come il più sensibile all’inclusione del diverso, come il più tollerante la differenza singola (alterità particolare che, si ripete, è issata solo ad arte, cioè appare solo giacché speciosa e senza fondamento alcuno, in quanto il fondo che tiene distinti i differenti si dà quale Pienezza in sé impartibile; ossia, altrimenti a dirsi, fuor di teoresi, in quanto i diversi emergono dallo sfondo orizzontale dell’Indistinzione, per cui non sono mai pienamente se stessi, ovvero la loro identità, autentica o a punto compiuta, è così precisamente sempre negata [non ha alcun senso, infatti, parlare di “identità debole”: l’identità, se e finché è, dimora presso quel sé che esclude – con necessità – l’altro; se, difatti, essa esclusione si dà col carattere della contingenza, cioè debolmente, quando avviene l’esclusione, il diverso sta presso il sé proprio, mentre quando – nel fluttuare od oscillare aperto dal carattere di uno stare non necessario – l’esclusione non avviene, il diverso particolare viene inglobato o sussunto nell’altro o diverso dal sé proprio distintivo, inglobato o insufflato nel perimetro ipseitale del contraddittorio o non-sé ovvero annichilito nel proprio se stesso]) in verità si fonda sul più feroce esclusivismo di ogni posizione di differenza, ossia sull’esclusione assoluta della Differenza stessa (“La chiarezza della distintività di ogni posizione particolare, cioè la saldezza della sua propria identità, è direttamente proporzionale alla diafania o kénosis dell’Orizzonte dell’Alterità...”; che, tra l’eco sopraggiungente dei rintocchi di compieta, questa assoluta soppressione contemporanea della Dia-ferenza-in-sé rappresenti l’epoché massima dell’Originario nel tempo del darsi diurno dell’adempimento escate del proprio Contrario estrinseco o deuteriore, non è qui luogo [Erörterung] per alzarne questione [Erörtern]).
Il più feroce, certo: non risulta, infatti, in alcun Annales che Cesare Ottaviano Augusto o Traiano avessero mai espresso la volontà di riscrivere la storia dei Parti o dei Daci, al fine di fare apparire le loro rispettive civiltà e culture, assiologie e visioni del mondo, perfettamente eguali – identiche ossia, si ripete, senza alcuna distinzione differenziativa – a quelle romane.
E ciò che avverrà nella finzione filmica, tra qualche anno compiutamente e “per decreto”, sarà solo prologo e prodromo di ciò che avverrà nel reale storico: se non vi saranno asiatici in Zimbabwe, gay in Sri Lanka, o paraplegici nel caucaso occorrerà importarli e impiantarli: questo è ciò che ci attente, lo si sappia e ci si prepari.
Alberto Iannelli
Potrebbe destare l’inquietudine di una rivelazione totalmente
inattesa quella rilevazione demoscopica che chiedesse a mille
nostri studenti universitari di Storia greca e di Letteratura
classica da chi e dove, ad esempio, furono uccisi gli Attridi o
quale funzione svolgesse l’eforato in Sparta. Con buona pace dei
Nóstoi e della meravigliosa trilogia eschilea, a cui
verrebbe sottratto l’antefatto della vendetta per la quale il
matricida Oreste viene perseguito dalle Erinni, e con altrettanta
requie dei delicati equilibri politici tra autocrazia e
oligarchia nelle
póleis greche, la maggior parte di
loro, ne siamo sicuri, risponderebbe: Agamennone fu ucciso da
Briseide e Menelao da Ettore, entrambi in Troia; gli efori erano
dei mistici corrotti e laidi che ottenevano aurei compensi in
cambio dell’interpretazione, politicamente cogente, dei deliri
oracolari e oscuri, psicotropicamente indotti, di giovani
fanciulle promosse a profetesse esclusivamente per la loro
avvenenza suscitatrice di senile lascivia.
Tutto questo è il potere mitopoietico di Hollywood, sul quale già
molto e da molto si è detto e scritto.
Ciò su cui invece colpevolmente poco si è riflettuto, si ritiene,
è la teleologia di questa sistematica artefazione del nostro
passato, di questa costante
interpretatio graeca
dell’alterità – di
ogni alterità in verità, egualmente
diacronica e diatopica – che è già volontà di artefare il nostro
stesso presente e il suo orizzonte assiologico, ideologico e
morale.
Non si tratta, infatti, di decretare l’illiceità di qualsivoglia
re-interpretazione artistica o medialmente traspositiva, né di
esigere l’assolutezza di un rigore filologico che inibirebbe ogni
produzione (ogni
poíesis a punto) dell’umana fantasia
creatrice; si tratta, piuttosto, di indagare e prospicere il
possibile fondamento tanto unitario quanto esoterico di un
molteplice darsi apogeo per differenza.
Derubricare ovvero questa volontà monadicamente compatta, per
quanto, politropa e scaltra molto, astutamente celante se stessa,
in libertà artistica o in adeguazione al
medium, libertà
epperò dell’ecfrasi cinematografica (di un opera letteraria come
della realtà storica stessa), appare candidamente ingenuo e non
cogliente giacché politica – e politica in senso pieno, cioè
anzitutto tropologica ed eterodirezionale, ossia compiutamente
propagandatrice di una precisa
Weltanschauung –, essa
volontà d’artefazione.
Infatti, l’opera affatto più perniciosa e pericolosa, poiché
assai più subdola, di questa potentissima industria
dell’indottrinamento di massa, non consiste nella disequazione
tra realtà storica e realtà filmica, non ossia nella
falsificazione evenemenziale che ponesse, ad esempio, Giulio
Cesare sconfitto ad Alesia e trionfatore a Gergovia, bensì in ciò
che potrebbe essere definita la “frode della metastoricità o
transculturalità dei caratteri”, la truffa ossia dell’inseità
universale dell’Umano che fa di noi e della nostra
“
Deîma” sofoclea eminentemente degli enti di
Natura e non di Storia: che Leonida, Marco Aurelio, Gengis Khan,
Carlo Magno, Tamerlano, Federico il Grande e Napoleone,
esattamente come tutti i loro attendenti e accoliti, sudditi e
sovvertitori, abbiamo le medesime percezioni e pulsioni, i
medesimi pensieri e desideri, le medesime aspirazioni e
assiologie di un newyorkese del 21esimo secolo, rappresenta il
più grande inganno del nostro tempo e del Potere in esso
vigente.
Ciò che resta nondimeno da chiedersi è quale sia lo scopo di tale
sistematica soppressione di ogni
pathos della distanza e
della differenza, di ogni alterità ossia e storica e culturale
elevata entro un orizzonte dell’Umano la cui postulata e
proiettata immorsatura diacronotopica o enadità universale trova
esatta corrispondenza teoretica e accreditamento apparentemente
anapodittico nelle moderne scienze evoluzionistiche, psicologiche
e neurali, precisamente postulanti la primazialità della
Physis e l’adiaforicità del
Geist nella
determinazione dell’essenza antropica. Cos’altro, infatti,
significa affermare che anzitutto la nostra ipseità categoriale
trova dimora nella quantità sinaptica (U = S >
10
14) o nella
skill della
strumentalità o, ancora, nell’opponibile oggettivazione del
medium tecnico, piuttosto che nella socialità che
organizza il clan ripartendone i compiti; cosa, ulteriormente,
asserire che le pulsione dell’inconscio ci definiscono e
affratellano globalmente al di là della gettatezza nella
Kultur in cui l’individuo le percepisce affiorare; se
non a punto sconfessare l’assoluta preminenza della Storia –
quale processo di differenziazione permanente e costante – come
unico Destino accomunante l’Umano, circoscrizione epperò sola
entro la quale può trovare autentica definizione e perimetrazione
eidetica l’essenza nostra categoriale via via effondentesi in
irriducibile differenza o partizione del distinto?
Altrove sono stati ostensi i
fondamenti delle asserzioni che danno replica a essa
interrogazione capitale, proposizioni che indicano
nell’Indistinto la cifra del nostro
Zeitgeist e
nell’estrema o tarda civilizzazione dell’epoca enantio-apollinea,
seconda in seno all’Era Deuteriore o contro-tempo dell’Essere-
in-sé, la collocazione del nostro presente lungo il Sentiero del
Giorno (=
Seinsgeschichte) o anti-camminamento del
notturno
Pólemos originario.
Qui si vuole invece elevare quanto, e fin da principio, Hollywood
sia stata e sia una delle più grandi armi di diffusione massiva
di quella “tirannia dei valori” schmittiana che caratterizza
l’Occidente trionfante, di quella terra ovvero ove trova
compiutezza di tramonto la civilizzazione manchesteriana della
Kultur faustiana, e con essa la stessa Era Deuteriore
testé evocata.
Secondo il grande giurista Carl Schmitt, l’assiologia
assolutistica e omniavvolgente dell’attuale Nomos der
Erde globalista (Pánta) e monadico (Én),
in cui l’Umano si dà giacché ente meta-storicamente e trans-
culturalmente inquadrato in un orizzonte valoriale anapodittico,
ipostatizza la peggiore delle tirannidi possibili, ossia la più
coerente-a-sé, in quanto non alcun ricetto ontico-posizionale
viene qui lasciato al non-valore ostracizzato dal Tutto-della-
Valenza, non-valore determinato che pertanto deve essere – ed è,
a ogni piè sospinto – sistematicamente annichilito quale non-
valore-assoluto.
Ma adesso questa micidiale macchina mitopoietica e
panpropalatrice ha compiuto un ulteriore scatto evolutivo, un
nuovo salto nell’innanzi che rappresenta, al medesimo tempo, il
disvelamento di quanto già in ante dantesi nel celamento
dell’inganno: il paradosso popperiano dell’inclusività
assolutamente esclusivista di qualsivoglia esclusività diviene
finalmente decretata per norma, diviene ossia condotta dalla
latebra della frode all’aprico dall’arroganza dei padroni
universali del discorso, evidentemente non più tementi adersioni
oppositive al loro vero volto ora viepiù desnudato.
A partire dal 2024 dunque, i film candidati all’Oscar nelle
categorie principali saranno obbligati a rispettare il
Diktat dell’inclusività o avvolgenza nell’Indistinzione
inseitale o nell’Omologazione assoluta: ogni minoranza (etnica,
di genere od orientamento sessuale e persino di disabilità
psico-motoria) dovrà trovare la propria quota di visibilità,
presenza e cittadinanza, dietro e davanti le macchine da
ripresa.
Non si commetta ora l’ingenuità di credere che tutto ciò
semplicemente consegua all’estremizzazione ottusa del cosiddetto
Politically Correct di cui è schiava la società
statunitense e l’intellighenzia sua
liberal. Né si
rimanga petrosamente illaqueati, con ancor maggiore candida
perniciosità, nell’affissare il volto suadentemente filantropico
e fascinosamente tollerante di questo Potere tanto totalitario
quanto intrinsecamente affatturante. La stessa critica che
scorgesse un parallelismo tra tale paternalismo etico e il
realismo socialista sovietico, non coglierebbe l’essenza di
questa decisione.
Ai più, infatti, giacché proprio su tale potenza
fraudolentemente affabulatoria si basa la forza di questo Potere
malebolgico, nonché, e anzitutto, come ci ricorda
Max
Scheler, di questo bio-tipo antropico in essa
trionfante, potrà sembrare come essa stessa paradossale
l’affermazione che indicasse nell’impossibilità di non-includere
l’identità del differente nell’identità dell’eguale la più
coerente e cogente delle esclusività, ossia l’Esclusività-in-sé-
dell’altro-dal-sé.
Come, voler includere l’altro escluso dalla partizione dell’unità
che Io stesso sono giacché e finché me stesso, rappresenta
proprio il totalitarismo dell’Intolleranza, il sommo
dell’Esclusività che annichilisce ogni distinta possibilità di
alterità, ebbene ogni precisa posizione di identità?
Sia:
La chiarezza della distintività di ogni posizione particolare,
cioè la saldezza della sua propria identità, è direttamente
proporzionale alla diafania o kénosis dell’Orizzonte
dell’Alterità: più saldamente si tiene fermo lo sfondo della
Dia-ferenza, più pienamente ossia si sostiene la nientità
dell’Originario, più chiaramente appare lo staglio dell’identità
particolare, più – coimplicativamente –, ciascuna realtà
determinata conquista pienezza di fondamento od onticità
inconcussa e compiuta; all’opposto, più turgescente s’effonde e
abbacinante l’Identità-in-sé deuteriore, più torbide e oscure
appaiono le parvenze delle identità individuali, più instabili i
loro confini epperò maggiormente nientificate le rispettive
posizioni o sostanze singole: è questo il tempo del
nichilismo inautentico, il tempo della notte del mondo, quando le
singole realtà o posizioni di identità particolari sono nulla e
del Nulla non ne è più nulla.
Altrimenti a dirsi: io rispetto davvero e pienamente l’altro
nella misura in cui non voglio inglobarlo nel mio mondo, bensì
preservarlo nella contraddistintività del proprio, giacché il suo
non-essere me e il mio non-essere lui ci fa essere entrambi ciò
che siamo.
Il nemico è la messa in questione di noi come figure […]. Il
nemico non è qualcosa che si debba eliminare per un qualsiasi
motivo, o che si debba annientare per il suo disvalore. Il nemico
si situa sul mio stesso piano. Per questa ragione mi devo
scontrare con lui: per acquisire la mia misura, il mio limite, la
mia figura.
[Carl Schmitt, Teoria del partigiano. Edizione
italiana: Adelphi, Milano 2005 ]
Si dirà: la società americana ha un’identità molteplice
articolantesi in differenti posizioni di identità particolari,
per cui imporre la rappresentatività di ogni segmento di questa
molteplicità ha come finalità esclusivamente il dare
rappresentazione del Tutto-dell’identità e non solo della parte,
e ciò risulta necessario e auspicabile proprio per la suddetta
potenza mitopoietica di Hollywood. Se in un film, infatti, vedo
solo attori bianchi, protestanti ed eterosessuali posso essere
indotto a pensare che l’identità complessa della stessa società
di cui quel film è specchio non abbia entro sé altre posizioni di
identità particolari.
Questa affermazione, apparentemente corretta e condivisibile, ma
solo se posta in astratto, se gettata invece nell’Orizzonte noi
attualmente (omni-)avvolgente, dimostra di non aver
compreso pressoché nulla di esso attuale nostro
Nomos der
Erde, soprattutto nulla della sua essenza s-confinata e
panica.
Ebbene, non alcuna possibilità d’elevazione di qualsivoglia
di(s)-stanza identitaria o distintività determinata può
trovare mai la propria allocazione posizionale
al di là
dell’Orizzonte
tutto-afferrante dell’Identità-
in-sé, Orizzonte aoristo ed equoreo entro cui ogni alterità si dà
giacché adiaforica,
sive nulla.
Quando il Mondo-Tutto-diviene-Uno e l’Umanità è decretata
universale quanto la sua assiologia, non può più darsi con
necessità alcuno spazio di vigenza per il non-valore
[egualmente per l’identità diversa], non alcuna
possibilità di trovare cittadinanza ontica è offerta agli esclusi
dal perimetro panico di essa posititività valoriale
[egualmente eidetica]: oltre il Tutto, nulla si
dà. A tutti i non allineanti rimane pertanto per ricetto
esclusivamente il Nulla. Questa è la Tirannia dei
valori. E non possiamo non concordare con Carl Schmitt
nell’indicare tale aggressivo annichilimento dell’altro tutto
quale spirito o essenza del nostro tempo.
In concreto: non già solamente quel film che ritraesse con
retta mimesi la società multietnica e
liberal americana
coeva, ma
ogni film che ritraesse
ogni comunità
dovrà conformarsi, ossia, egualmente, omologarsi, al disegno
sociale che
piace al Potere (gradevole e grazioso
naturalmente giacché
massimamente lucrativo: le
minoranze sono anzitutto quote particolari del tutto del mercato;
il mercato deve essere un Tutto e non alcuna sclerosi
identitaria, ossia differenziativa – che non sia ad arte aderta -
deve giammai ostare al fluido scorrimento delle merci e godimento
dei consumi, non lo Stato, non la lingua, non l’altare, non i
lascito dei padri etc...; l’indebolimento della differenza, che è
a punto – per coimplicazione necessaria – indebolimento
dell’identità, conduce nello staglio distintivo che permane
l’identità del
brand e della
corporation che lo
smercia etc...).
Ed è proprio in essa vocazione universalistica, cioè a dire
monadica – assolutamente unitaria egualmente epperò, proprio per
questo, sommamente autocratica, che dimora l’attuale acme storico
dell’Esclusività, ebbene il più feroce e ferreo, cioè
teoreticamente più coerente, dei totalitarismi: non solo
all’alterità diatopica deve essere inibita ogni posizionalità
propria, se distintivamente divergente, ma neppure ad alcuna
estollenza eidetica passata o alterità diacronica può essere
concesso ricetto ontico o emancipazione al sé diverso dal
Tutto (se poi vi fossero alcuni che, mossi dal radicalismo della rappresentatività, arrivassero addirittura a sostenere la liceità di annullamento di qualsivoglia
pathos della differenza anche in quei film che dovessero ritrarre società a noi distanti nel tempo e nello spazio, poiché la loro fruizione pur avverrebbe nel presente, non potremmo che tornare ad augurare loro “buon loto”).
Ecco che il Potere che si mostra come il più sensibile
all’inclusione del diverso, come il più tollerante la differenza
singola (alterità particolare che, si ripete, è issata solo ad
arte, cioè appare solo giacché speciosa e senza fondamento
alcuno, in quanto il fondo che tiene distinti i differenti si dà
quale Pienezza in sé impartibile; ossia, altrimenti a dirsi, fuor
di teoresi, in quanto i diversi emergono dallo sfondo orizzontale
dell’Indistinzione, per cui non sono mai pienamente se stessi,
ovvero la loro identità, autentica o a punto compiuta, è così
precisamente sempre negata [non ha alcun senso, infatti, parlare
di “identità debole”: l’identità, se e finché è, dimora presso
quel sé che esclude – con necessità – l’altro; se, difatti, essa
esclusione si dà col carattere della contingenza, cioè
debolmente, quando avviene l’esclusione, il diverso sta presso il
sé proprio, mentre quando – nel fluttuare od oscillare aperto
dal carattere di uno stare non necessario – l’esclusione non
avviene, il diverso particolare viene inglobato o sussunto
nell’altro o diverso dal sé proprio distintivo, inglobato o
insufflato nel perimetro ipseitale del contraddittorio o non-sé
ovvero annichilito nel proprio se stesso]) in verità si fonda sul
più feroce esclusivismo di ogni posizione di differenza, ossia
sull’esclusione assoluta della Differenza stessa (“La chiarezza
della distintività di ogni posizione particolare, cioè la
saldezza della sua propria identità, è direttamente proporzionale
alla diafania o
kénosis dell’Orizzonte
dell’Alterità...”; che, tra l’eco sopraggiungente dei rintocchi
di compieta, questa assoluta soppressione contemporanea della
Dia-ferenza-in-sé rappresenti l’
epoché massima
dell’Originario nel tempo del darsi diurno dell’adempimento
escate del proprio Contrario estrinseco o deuteriore, non è qui
luogo [
Erörterung] per alzarne
questione [
Erörtern]).
Il più feroce, certo: non risulta, infatti, in alcun
Annales che Cesare Ottaviano Augusto o Traiano avessero
mai espresso la volontà di riscrivere la storia dei Parti o dei
Daci, al fine di fare apparire le loro rispettive civiltà e
culture, assiologie e visioni del mondo, perfettamente eguali –
identiche ossia, si ripete, senza alcuna distinzione
differenziativa – a quelle romane.
E ciò che avverrà nella finzione filmica, tra qualche anno
compiutamente e “per decreto”, sarà solo prologo e prodromo di
ciò che avverrà nel reale storico: se non vi saranno asiatici in
Zimbabwe, gay in Sri Lanka, o paraplegici nel caucaso occorrerà
importarli e impiantarli: questo è ciò che ci attente, lo si
sappia e ci si prepari.
Alberto Iannelli